Verso le elezioni. E’ il momento di spezzare le catene dell’ossequio: per i quarantenni suona l’ora di dare l’assalto al Palazzo

Per la schiatta dei '70 è suonata l'ora di assumersi, direttamente e senza filtri d'intralcio, le proprie responsabilità

Giuseppe Scopelliti, anno di nascita 1966; Giuseppe Falcomatà, anno di nascita 1983. Diciassette anni di differenza, un buco nero enorme nel quale un’intera generazione di Reggio Calabria, quella degli attuali quarantenni e dintorni, è precipitata rovinosamente.

Incapacità o impossibilità? Più la seconda della prima. Da una parte e dall’altra, sulla sponda del centrodestra e su quella del centrosinistra, l'”ascensore” è rimasto fermo, immobile. Nel primo caso Scopelliti ha indossato i panni del “dominus” fin dal 1995, anno in cui fu eletto presidente del Consiglio regionale. Era chiaro, fin da allora, infatti, che avrebbe avuto una carriera folgorante e tutti gli altri si sarebbero dovuti mettere in fila. Quando, però, è arrivato il momento di “passare la mano” nella gestione della città, la scelta è ricaduta su Demi Arena, professionista eccellente munito di un amore sincero nei confronti della città e di una coscienza civile inattaccabile, ma appartenente, comunque, alla classe del 1956. Assenza di coraggio, volontà di arrestare la crescita di qualcuno che, nel tempo, avrebbe potuto mettere in discussione la leadership? Certo non mancava il materiale umano da pescare a piene mani in quella fascia anagrafica tagliata fuori. Sull’altro fronte, invece, è risultato vincente l’asse familiare Naccari (1967)-Falcomatà (1983): il primo, sfidante (sconfitto) di Scopelliti nel 2002, il secondo, eletto sindaco dopo aver vinto le Primarie contro Domenico Battaglia (1961). Eppure, quella dei quarantenni, è una “stirpe” che, a buonissimo diritto, potrebbe e dovrebbe, per background ed esperienze, assumersi l’onere e l’onore di guidare la città. Non le manca, certo, la passione civile: si è formata negli anni della seconda guerra di ‘ndrangheta, quella che insanguinò Reggio tra il 1985 ed il 1991 e gli occhi di qualsiasi ragazzo di allora hanno visto cadaveri sull’asfalto, udito colpi di pistola in un sabato sera qualunque, uscendo da un locale o prima di entrare in una discoteca o banalmente cazzeggiando davanti ad uno qualsiasi dei ritrovi dell’epoca. Vanta una solida cultura politica: ultima partecipante al “gran ballo” delle ideologie, gode di una preparazione incomparabilmente superiore a quella, inesistente, di coloro che sono arrivati dopo e che non perdono occasione di manifestare quotidianamente la loro tragicomica debolezza Alla “razza quarantenne” non si può imputare nemmeno un deficit di senso dell’identità, tutt’altro, grazie a quell’orgoglio collettivo rinsaldatosi nel corso delle rispettive esistenze anche, e soprattutto, grazie allo sport. Sono loro che ad essa appartengono, non altri, a nascere alla vita sociale facendo esplodere la domenica il Botteghelle ed il PalaCalafiore e respirando, il resto della settimana, una vita a colori neroarancio. E, ben prima dei fasti della Serie A, sono stati loro, e non altri, a riempire le strade per salutare, dopo tre lustri di Serie C, la promozione conquistata dalla “Banda di Scala“. Anni durante i quali era palpabile la prospettiva di un destino comune, della volontà, prima ancora della necessità, di dover camminare inseguendo un sogno comune. Cosa sia rimasto di quel tempo non è molto di più rispetto al ricordo, ancora vivido, di ciò che i quarantenni avrebbero dovuto fare da lì in avanti. Sapevano che un giorno sarebbe toccato a loro: avevano preso “il numerino”, ma dopo essersi messi in fila dietro quelli più “grandi”, sono stati scavalcati dai più “piccoli” (in tutti i sensi). Non hanno perso la partita, semplicemente non l’hanno (ancora) giocata, anche se sono ancora in tempo per scendere sul terreno di gioco e stravincere, perché quanto a talento naturale e voglia di vincere non hanno, né mai avranno, rivali. L’arbitro, tra qualche mese o giù di lì, fischierà l’avvio della competizione decisiva per le sorti future di Reggio: è l’ultima occasione per “la generazione di fenomeni tutti eroi” di pretendere, e prendersi con feroce determinazione pari ad intelligente lucidità, quell’aspirazione visionaria che, da chi è sopraggiunto sottraendola dalle mani dei legittimi proprietari, è stata trasformata in una piaga angosciante. E’ il momento di ripensare all’eleganza di Kim Hughes che, nonostante la sua infinita finezza, sapeva alzare i gomiti sotto le plance per tagliare fuori gli avversari di cui sbarazzarsi. E’ il momento di riportare sul manto erboso la carica aggressiva e la spinta energica di Rosario Sasso: sono le armi infallibili per gettare il cuore oltre l’ostacolo e condurre là dove merita una comunità oppressa dallo sconforto malinconico che ne hanno provocato la caduta negli inferi della nostalgia. Nonostante le occasioni già andate al macero, la tempistica rasenta la perfezione, superata la fase dell’avventata inesperienza e prima di imboccare il viale dello scettico cinismo. Non è più una questione di nomi, è una questione di spirito per ridare un senso alla Storia, personale e comune: per la schiatta dei ’70 è suonata l’ora di assumersi, direttamente e senza filtri d’intralcio, la responsabilità di condurre il popolo reggino verso la Nuova Alba oscurata dai fragili impostori eterodiretti del presente. Del resto, basta esprimere un giudizio su quei pochi che, negli anni, non sono rimasti a guardare e che hanno mostrato un acume politico, figlio della cultura di provenienza, non rintracciabile nel resto della compagnia. Spezzare le catene, anche quelle della pigrizia, è, quindi, diventato un dovere nei confronti di sé stessi, nei confronti di ciò che è stato.

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