
La sbornia di percentuali e commenti seguita allo spoglio delle schede elettorali ha superato lo scoglio del primo turno, per i Comuni con popolazione superiore ai 15000 abitanti, dando un responso definitivo per tutti gli altri. La convocazione di 9 milioni di aventi diritto al voto restituisce, dunque, un quadro sufficientemente esauriente ed offre chiavi di lettura pronte all’uso anche nelle città che si esprimeranno in futuro. Prendiamo il caso di Reggio Calabria, dove l’Amministrazione Falcomatà ha superato il giro di boa ed arriverà al capolinea nell’autunno del 2019. L’analisi, naturalmente, sconta la presenza di diverse incognite, ma non può prescindere da alcuni punti fermi che sarà molto difficile rimuovere quando arriverà il momento della verità. Il primo, ovvio nella sua accecante evidenza, è costituito dall’impopolarità dell’attuale sindaco. Con costanza degna di miglior sorte, essa è in inesorabile e permanente crescita. Una progressione destinata a toccare picchi vertiginosi da qui al termine della consiliatura e che non lascia scampo alle eventuali ed irrealistiche ambizioni di riconferma da parte di un Primo Cittadino, destinatario di un moto di delusione pressoché generalizzato. Un’ondata di delusione che trae quotidiana forza, prima di tutto, da quelle ampie sacche di consenso, piene nel 2014 e soggette da allora ad un rapido svuotamento provocato dalle aspettative frustrate da uno sconcertante governo della città. Questo caotico scenario ha il solo merito di restituire ai compagni di viaggio, singole persone fisiche di buona volontà e valide capacità, la consapevolezza che affrancarsi dall’operato di Falcomatà è un dovere non più eludibile. Confondersi con la sua opaca immagine determinerebbe, inevitabilmente, una condivisione di responsabilità che, come un pesante macigno, li farebbe affondare sotto gli occhi impietosi dell’opinione pubblica. Il Capo non è più una risorsa, ma un problema anche per il PD, il suo stesso partito. In un contesto del genere, complice l’inesistenza del Movimento 5 Stelle in riva allo Stretto (ed è questo il secondo punto fermo), il centrodestra è obbligato ad una rapida riorganizzazione (terzo elemento oggettivo). I risultati emersi domenica dalle urne lungo la Penisola testimoniano che l’area continua ad essere presidiata da un’ampia fascia di elettorato, nonostante la mobilità dei flussi sia l’indelebile marchio di fabbrica dell’era post-ideologica. Una circostanza che si delinea come un appello alla responsabilità nei confronti degli esponenti reggini di una coalizione uscita con le ossa rotte dalla traumatica interruzione dell’epoca segnata dalla indiscussa leadership di Giuseppe Scopelliti. Da quel momento in avanti, in una sorta di “liberi tutti”, ciascuno rinchiuso nel proprio piccolo orticello, hanno preferito attendere tempi migliori. Seduti sotto l’albero delle nostalgiche recriminazioni, si sono lasciati sedurre da veti incrociati e rancori personali: robusti mattoni utili solo ad innalzare barriere difensive per le fortezze abitate dall’autoreferenzialità. In ordine sparso, hanno tirato su ponti levatoi che la coscienza civile impone loro di abbassare: ora. D’altra parte, il successo del centrodestra, a differenza di quanto sostenuto da alcuni commentatori, non è una sorpresa: certifica, infatti, che, sebbene zavorrato dall’assenza di una riconoscibile guida a livello nazionale, dispone di un bacino, potenziale e reale, ancora talmente vasto da assicurare la vittoria nei casi in cui i candidati sono autrevoli e credibili. Ciò significa che, anche dalle parti di Reggio, non è più tempo di tergiversare. Saranno, verosimilmente, le elezioni Politiche a fungere da spartiacque: più che una previsione un auspicio, perché, seppellita dalle macerie accumulatesi sotto i colpi mortali inferti dall’incompetenza della squadra capitanata dal Primo Cittadino in carica, la rinascita di una città distrutta, “nel corpo e nell’anima”, non può che passare da protagonisti diversi, da qualunque strada essi provengano.
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