Tradimento: è questo il sentimento che, prepotente, emerge quotidianamente nel confronto, anche occasionale, con coloro che, due anni e mezzo addietro, accordarono la loro fiducia al racconto, invero stentato anche allora, di Giuseppe Falcomatà. Trentuno mesi che hanno causato un unico, percepibile, effetto: il credito di consenso accumulato, senza troppi meriti, dal sindaco di Reggio Calabria, fino al momento del voto che riconsegnò la città alla normalità democratica è andato progressivamente assottigliandosi raggiungendo con rapidità una soglia insostenibile per chiunque, figurarsi per chi non gode di spalle robuste per reggere il peso dell’impopolarità. Un percorso netto verso il burrone lungo il quale sono precipitate le speranze collettive. E’ come se la luna di miele, che tradizionalmente lega per un periodo un leader appena eletto al suo popolo, non abbia previsto, a questo giro, la tappa sulla sponda calabrese dello Stretto. Le ragioni non sono da ricercare esclusivamente indugiando attorno alle categorie della politica. Le maggiori difficoltà nel rapporto tra il Primo Cittadino e l’opinione pubblica sono alimentate da deficit di natura caratteriale che, in quanto tali, non possono essere soppresse a colpi di rimpasti di Giunta. Basti pensare a quanto misera sia stata la produzione amministrativa negli ultimi cinque mesi, quelli che hanno fatto seguito alla sofferta redistribuzione delle deleghe assessorili, tra defenestrazioni riuscite ed altre fallite. Un’operazione malamente concepita e peggio venuta alla luce proprio perché, come certificato da fatti indiscutibili, tale è la debolezza del sindaco Falcomatà che, sebbene tenga sotto il proprio tallone la quasi totalità dei consiglieri di maggioranza e dei componenti dell’Esecutivo, all’esterno di quello striminzito perimetro in cui il Capo tutto decide, nullo è il suo potere. Al punto da ridurre un margine di manovra che, fosse stato più ampio, gli avrebbe consentito di mettere a tacere quell’unica voce di dissenso non ammutolita davanti ai diktat a cui, con spontaneo atteggiamento servile, si assoggetta, senza amor proprio e senza libertà di pensiero, il resto della scalcinata truppa. Una compagine che si è consegnata, legandosi mani e piedi, ad una autorità senza autorevolezza: è l’inevitabile destino di coloro che, consapevoli dell’inconsistenza in capo ad essi, mostrano platealmente di essere inermi agli occhi del Re. Un Sovrano, tuttavia, fasullo, avvinghiato a slogan dozzinali, immagini da gettare in pasto ai poveri di spirito ed a fatali omissioni: un menu impossibile da digerire anche per gli stomaci forti dei reggini.
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