
Giuriamo che ci proveremo tutti insieme non lesinando energie, non risparmiandoci alcuna fatica, soprattutto psicologica, ma lo faremo perché lo dobbiamo a noi stessi, lo dobbiamo al futuro del Paese. Un destino quanto mai messo in discussione nel preciso istante in cui abbiamo commesso l’azzardo più spregiudicato: arrischiare un’uscita dal tunnel lugubre della pandemia privandoci dell’ispirazione da statista di Giuseppe Conte, dell’ingegno istituzionale di Fofò DJ, al secolo Alfonso Bonafede, della genialità prodigiosa di Rocco Casalino (Dottorato di Ricerca in Scienza Politica conseguito presso il Grande Fratello), della sottile raffinatezza politica di Giggino Di Maio nel ruolo di ministro degli Ester (turba anche solo scriverlo). Riuscirci senza di loro sarebbe un’azione eroica di cui le generazioni che seguiranno non potrebbero far altro che favoleggiare romanzando le gesta del popolo italico. Ma ci proveremo con quel che può offrire il diroccato convento dell’élite nazionale pilotata da Mario Draghi, un umile economista arrabattatosi nel corso della sua vita tra il MIT di Boston ed il Ministero del Tesoro, tra Goldman Sachs e l’ordinario incarico di Governatore della Banca d’Italia fino a svernare, per otto anni, alla presidenza della Banca Centrale Europea. Nulla rispetto a chi ha abolito la povertà, ma negli snodi decisivi della Storia bisogna saper cavare il massimo dalle risorse minuscole. Questo è e dovremmo tutti prenderne atto.
Una posa che, però, non sembra voler assumere Giuseppe Falcomatà, di professione sindaco di Reggio Calabria ad libitum, Primo Cittadino dei vivi e dei morti. Lui, al quale la cittadinanza devota riconosce un giorno sì e l’altro pure la naturalezza che ne ne guida l’azione carismatica da vera guida della comunità, un uomo della plebe che ne rappresenta le istanze più autentiche non abbandonandosi a facili voli su nuvole cariche di nulla e di retorica, è affranto, afflitto, dalla fine ingloriosa del Governo guidato dall’Avvocato del Popolo. Non capisce, egli che aborrisce le miserie grette della politica politicante, come ciò sia accaduto e, da portavoce dell’urlo angosciato che sale dagli anfratti più profondi della società, chiede spiegazioni per i cassintegrati ed i lavoratori a rischio licenziamento. Sa di cosa si parla perché Falcomatà conosce come nessuno l’asprezza del disagio economico, dell’incognita incombente sul futuro. Pretende che il piano di vaccinazione acceleri e se lo può permettere il sindaco che non ha incontrato intoppi nemmeno nell’individuazione dei Covid Hotel. Considera inammissibile cambiare squadra di governo quando tutte le intuizioni meritano di essere indirizzate verso “idee e progetti che trasformeranno le nostre città”, sostiene “Suo Immobilismo”, che ammette il suo assillo per gli sfrattati e lo fa in un luogo della Terra in cui la gestione e la manutenzione delle case popolari è un modello invidiato in tutti i lembi del globo. Soprattutto, arrivando così al cuore della sua sofferenza interiore, sollecita delucidazioni per “quei cittadini a cui per legge siamo costretti a mandare il saldo tari nonostante le difficoltà note sui rifiuti”. Chapeau: un capolavoro di funambolismo sulla corda tesa dell’abiezione morale, perché le responsabilità in capo al fallimento della raccolta è tutta, senza partizione alcuna, in capo all’inabilità amministrativa concretizzatasi anche con il mancato funzionamento dell’ATO causa originaria dello strazio sofferto dai reggini. “I partiti hanno dimostrato ancora una volta di essere in preda ad una crisi strutturale senza vie di scampo, una crisi irreversibile che porta ogni giorno di più i cittadini a perderne la fiducia”, parole del sindaco che, prima di scriverle in un post su Facebook, le avrà partorite specchiandosi nell’abisso in cui ha fatto precipitare la città. Una città che tanto avrebbe da guadagnare da figure simili a quei “tecnici” da lui tanto sbeffeggiati, ma provvisti di quelle virtù a lui estranee e determinanti per reggere il timone di una collettività sapendo leggere la bussola.