
Di seguito le riflessioni dell’avvocato Ernesto Siclari, Coordinatore Metropolitano del Movimento Nazionale per la Sovranità di Reggio Calabria, in risposta all’editoriale pubblicato da ilmeridio.it nel pomeriggio di ieri, venerdì (leggi qui)
Caro Condirettore,
mi dispiace, ma le differenze di vedute e la grande varietà delle idee che distinguono e contraddistinguono gli esseri pensanti mi portano a registrare il primo caso di (parziale) dissenso da un tuo intervento. E non certo o non soltanto perché sono il Segretario del Movimento Sovranista che citi, ma soprattutto per i contenuti dello stesso tuo “pezzo”, per una volta lontani, nonostante l’immensa stima che nutro per te, dalla sostanza della mia formazione culturale e politica.
Noi del MNS siamo uomini di Legge, caro Condirettore. Ed io per primo lo sono. La Destra insegna da sempre il rispetto per le regole che la società in cui si vive ed esercita si è data. E quelle regole, quelle norme di vario rango, dal costituzionale al regolamentare, costituiscono i baluardi assoluti per la tenuta di un sistema democratico. Il rispetto della Legge è principio ispiratore di un partito come quello che mi onoro di coordinare perché esso affonda le proprie radici in un humus valoriale profondo e solido.
E le stesse regole non si esauriscono nei precetti e nei divieti, in enunciazione di diritti e doveri, perché insieme alle norme sostanziali esistono, e non sono assolutamente meno importanti, quelle processuali, le norme che indicano e dispongono la forma che va messa in atto, la strada che va seguita per la affermazione di un diritto, per la configurazione di un reato. Forma che assurge a ruolo di sostanza sempre e comunque.
Sembrerà strano in questo mondo di blogger e opinionisti d’accatto, ma sono elementari regole di uno Stato di Diritto. E tu lo sai molto bene, leggendo dal tuo osservatorio e con le capacità che ti caratterizzano la vita di tutti i giorni.
Ho assistito attonito ai primi sussulti apostati di una sinistra che ha rinnegato i propri capisaldi in nome di un nemico da combattere con ogni mezzo, ma non mi sono pacificamente assuefatto alla portata sempre più crescente del loro delirio “manettaro”. E quando leggo che esistono i “giustizialisti” e i “garantisti” tout court, vengo assalito da un fremito di raccapriccio. Ed ancor più inorridito divengo se in maniera assolutistica queste prese di posizione vengono assunte da tecnici e dagli addetti ai lavori.
Le cause sono probabilmente riconducibili ad una “baraggia” dialettica e fors’anche gnoseologica nella quale siamo pigramente andati a cadere, ma in un Paese che voglia davvero dirsi democratico, giustizia e garanzie devono coesistere e viaggiare sempre a braccetto, in una sorta di bilanciamento degli interessi che deve necessariamente ispirarsi al diritto naturale prima ancora che a quello positivo.
L’un principio non può escludere l’altro senza creare delle conseguenti spaccature in seno ad una democrazia che si ammala ogni giorno di più di un protagonismo insostenibile e tendenzioso.
Ma giustizia e garanzia sono due facce della stessa moneta, sulla quale c’è scritto che chi sbaglia paga, ma secondo regole di diritto. Ergo, se commetto un reato soggiaccio alla pena (giustizia) prevista da un codice di diritto sostanziale e secondo le regole dettate da quello di rito (garanzia).
Sul terreno processuale non può esserci giustizia senza garanzie che non sfoci in despotismi e, viceversa, non può esservi garanzia di rispetto delle regole democratiche senza che la giustizia trionfi.
Ma noi viviamo in un mondo in cui lo strillone ha superato in curva il giornalismo vero ed in cui lo scandalo “impalla” senza scampo i fatti realmente accaduti nella fotografia italiana. Orbene, appare evidente che la società civile si trova di fronte ad una instauratio magna, una porta oltrepassata la quale, per dirla con Bacone, multi pertransibunt et augebitur scientia, e dunque ciascuno può liberamente contribuire all’avanzamento indefinito del sapere. Ma a tutto c’è un limite.
La verità è che l’Italia è un Paese profondamente malato che ha prestato il fianco alla irresponsabilità di molti protagonisti della scena politica, del mondo del giornalismo e degli opinionisti dell’ultima ora, pronti a calpestare ogni regola deontologica e comportamentale, privando di significato contenuti e aspetti valoriali e riducendo a macelleria dialettica il fervore intellettuale e la grande capacità di confronto che affonda le radici nel glorioso passato italico, di cui oggi si è persa ogni traccia nell’indifferenza dell’opinione pubblica e della intellettualità, un tempo inflessibile accademia a tutela dei principi fondanti di una società civilizzata.
E la politica ha un dovere, caro Conirettore, quello di non strumentalizzare le vicende giudiziarie a proprio tornaconto elettorale, perché ciò altro non significa che delegittimazione. La politica non va abbattuta, come vorrebbero i pentastellati cervelli, va riabilitata, attraverso una decisa presa di coscienza che, solo grazie a una formazione culturale seria e capace di erigere muri altissimi alla tentazione di indugiare in acque sporche di illegalità, potrà condurla fuori dalle stagnanti paludi in cui si trova. E tutti i partiti ed i movimenti dovrebbero dare vita a percorsi virtuosi che tengano lontani dalle proprie fila chi non fa delle suddette norme etiche il proprio codice deontologico. Ma è la politica a doverlo fare, senza cedere prerogative a nessuno.
I veleni, poi…, capisci bene che vanno in evidente stato di antitesi con la nostra struttura ontologica. Quelli li lasciamo a chi li ha in corpo per avere nutrito odio politico e personale e a chi gestisce il sistema mediatico, la macchina quasi perfetta da mettere in moto senza scrupoli, capace di gettare fango e sterco sulla città per travolgere insieme agli avversari politici l’intera Reggio. Noi non anteporremo mai gli interessi personali e di partito a quelli della comunità.
Diversamente, mi trovo in perfetta assonanza con quanto affermi circa una enorme responsabilità che pesa e grava sulle teste di tutti noi in questo preciso momento storico e che e riguarda la non più procrastinabile presa di coscienza di una (sotto)cultura della vigliaccheria che affligge questa terra e che non possiamo e non dobbiamo tollerare oltre.
È arrivato il momento di guardarsi negli occhi e capire se i reggini hanno ancora intenzione di rischiare la vita dentro le nostre strutture (mala)sanitarie, se i nostri commercianti vogliano continuare a spartire il frutto del loro lavoro con chi si nasconde all’ombra della propria codardia e se gli imprenditori abbiano ancora voglia di investire i loro patrimoni al sacrificio di sviluppo e libertà. Serve comprendere se vogliamo davvero che i nostri figli crescano tra la barbarie che potremmo lasciargli, nella subcultura dell’illegalità e della arroganza. E poi decidere che fine vogliamo far fare a queste quattro mura.
E questo è un compito che spetta proprio alla politica, certamente nella sua accezione più nobile e non certo a quella agitata e brandita da giustizialismo di convenienza e garantismo d’opportunità.
Con affetto e immutata stima.