
Se qualcuno non ha mai praticato lo “sport estremo” della corsa sul Lungomare di Reggio Calabria, lo faccia.
Si renderà conto, nell’arco di pochi metri, che non si tratta di una tranquilla sessione di jogging, come succederebbe in qualsiasi altro angolo del mondo, ma di una vera e propria lotta per la sopravvivenza, ottima per forgiare la mente ed il carattere. Del resto, onestà intellettuale impone di ricordare che questa sia una delle attività più consigliate dai professionisti della salute: è un peccato che in riva allo Stretto gli effetti si rivelino, però, contrari rispetto alle aspettative. Perché, alla fine di un’ora di allenamento tutto si può dire, tranne che essa abbia contribuito ad abbassare il livello di stress cui l’essere umano contemporaneo è abituato. Trottando avanti e indietro sul lungomare, infatti, quella che si affronta è un’autentica corsa ad ostacoli. Tra tagliaerbe che sembra quasi si divertano ad alzare polveroni non appena intravedono sagome umane; irrigatori zampillanti all’improvviso e così sofisticati da disegnare traiettorie impensabili; furgoncini ai quali qualche buontempone piazzato all’altezza del Lido comunale o del Tempietto evidentemente manomette i clacson; inebrianti olezzi maleodoranti difficili da avvertire anche a ridosso di una discarica e, dulcis in fundo, la necessità di doversi difendere dagli assalti di un numero indefinito di cani ormai padroni assoluti dell’intera zona. Anche loro vittime della naturale bestialità dei loro padroni, che li sguinzagliano come se fossero all’interno delle loro bettole, si lanciano in corse forsennate, indipendentemente dalla presenza di anziani malfermi, bambini, donne incinte, neonati e la lista potrebbe continuare ad oltranza. Ignari, gli animali bipedi che ad essi si accompagnano, della presenza di norme precise. Tralasciando quelle imposte dal buon senso e dell’educazione, sono quelle contenute in chiarissime e specifiche leggi che i buzzurri disconoscono dal basso della loro spregevole prepotenza. Mosso da stupida ottusità, ci sarà chi leverà in alto il suo braccino iniziando a frignare che non è certo la presenza dominante di cani frenetici il problema di una città allo sbando come Reggio Calabria. La questione, meglio specificarlo a beneficio degli esaltati poco perspicaci, è ben più ampia. Inarchiamo il sopracciglio accusatore per condannare la mafiosità in tutte le modalità con cui essa si manifesta mortificando le persone oneste città ed allora perché non inserire nell’elenco anche questa forma così plateale di incivile arroganza? L’unica differenza con le azioni proprie di un affiliato alla ‘ndrangheta è data dall’assenza di armi, ma l’approccio al bene comune è identico in tutto e per tutto: il sopruso al di sopra di ogni regola di convivenza: zotici in canottiere traboccanti foreste nere o presunte nobil signore in attillati leggins prossimi all’esplosione vagabondano con la massima strafottenza sbattendo in faccia, circondati dai rispettivi canili mobili, a chi incrociano la loro condotta prevaricatrice. Bruti che, in omaggio ad una chiara solidarietà con i loro amici a quattro zampe, testimoniano quanto il processo di civilizzazione, nel corso della storia, si sia arrestato davanti all’insopprimibile barbarie dei villani. Modi di fare, quel che è peggio, talmente spudorati da rendere insensibili al rispetto del Codice anche i rappresentanti delle forze dell’ordine che, pure, capita, di incrociare quotidianamente sul Lungomare. Reggio Calabria, come noto, mancando di una degna leadership politico-amministrativa, è calpestata dall’anarchia, ma questo deficit di democrazia non autorizza chi indossa (inutilmente) una divisa a chiudere gli occhi o a girarsi dall’altra parte davanti a palesi infrazioni commesse in barba a prescrizioni dettagliate. A fronte di cotanta imperturbabilità, non rimane altro che resistere con stoicismo al regresso, perfetto indicatore dell’attuale decadenza collettiva.