Il caso Ripepi non ammette “meravigliati della grotta”

Per una volta, la politica, si riappropri del suo primato e della sua dignità

Tutto troppo facile, come si suole fare quando è la vigliaccheria a guidare i comportamenti di una politica senza spina dorsale e la doppiezza ha la meglio a causa del tipico opportunismo da consenso elettorale. La scabrosa vicenda che ha acceso i riflettori su Massimo Ripepi e sulla comunità di cui è leader spirituale seguirà un corso giudiziario che all’opinione pubblica deve interessare quanto basta, senza bava alla bocca e senza emettere verdetti al momento privi di qualsiasi appiglio razionale, ma ben stretti alla sfera istintiva del raccapriccio e, di conseguenza, del tutto inattendibili. Quello che deve stimolare la riflessione non è il caso specifico, sul quale, inevitabilmente, mancano ancora elementi di giudizio, ma alzare il velo sospetto e nero che da troppo tempo copre ciò che succede all’interno della comunità con sede a Gallico e dalle dinamiche molto più simili ad una setta.

Le preoccupazioni relative alla Chiesa Cristiana “Gesù Cristo è il Signore” affondano le radici in epoche ormai lontane, ma nessun partito o nessuna coalizione di cui Ripepi abbia fatto o faccia parte ha mai avuto alcunché da eccepire. Quando nel febbraio del 2016, dunque ormai cinque anni fa, entrò in Fratelli d’Italia abbandonando Forza Italia, lo fece dalla porta principale, tra squilli di tromba ed accanto ad importanti dirigenti nazionali del partito che ne salutarono l’ingresso in un tripudio di applausi scroscianti ed entusiasmo tracimante i limiti della troppo angusta sala della Città Metropolitana in cui fu celebrato il rito. Responsabile regionale del Dipartimento Enti locali: questo il ruolo che, pronti via, FdI, gli affidò senza alcuna incertezza. Se il principio del “non poteva non sapere”, in un’aula di Giustizia, si regge spesso su castelli di sabbia, così non è, però, quando è la politica a doversi assumere la responsabilità di una decisione. E, allora come oggi tutti, compresi i leader nazionali e regionali di Fratelli d’Italia, sapevano delle perplessità, per usare un eufemismo, relative ai metodi eterodossi di indottrinamento dei seguaci di una Missione che è un groviglio di prediche integraliste e cooperative in affari con il Comune di Reggio Calabria (anche mentre Massimo Ripepi, per inciso, si atteggiava a massimo esponente della sedicente minoranza in Consiglio comunale). Allo stesso modo lo sapevano coloro i quali ne sponsorizzavano, nei mesi scorsi, con rabbiosa determinazione la candidatura a sindaco, sebbene fosse chiaro anche ad un troglodita analfabeta che mai e poi mai sarebbe stato possibile presentare, per conto del centrodestra, un’opzione simile. Tutto, inoltre, è reso ancor più fastidioso dalla circostanza che Ripepi, in tutti questi anni, ha consolidato davvero i rapporti con i vertici di Fratelli d’Italia, forte di un rapporto consolidato con il Deputato Francesco Lollobrigida, peraltro cognato di Giorgia Meloni. Difficile immaginare che autorevoli esponenti di un partito influente che tutto sanno di tutti ignorassero opinioni negative così largamente diffuse su una organizzazione religiosa troppo ambigua per passare inosservata. Che il Commissario provinciale di FdI, Denis Nesci, si mostri incredulo dopo aver appreso qualche dettaglio di un caso che, vale la pena ripeterlo, è tutto da scrivere, lascia esterrefatti, proprio perché la politica, se seria e credibile, avrebbe già dovuto emarginare un personaggio portatore di valori totalmente discordanti con quelli peculiari di una società aperta e liberale. L’autosospensione dal partito, sia ben chiaro, è un palliativo del tutto inefficace e, tra l’altro, irrispettoso dell’istituzione Comune che Ripepi, sia pur dai banchi della minoranza, rappresenta. Come può giudicare opportuno un provvedimento che inficia la sua attività all’interno di una parte politica e non avvertire con maggior determinazione il dovere di abbandonare momentaneamente il campo della massima Assemblea elettiva cittadina? Un’Aula in cui nel marzo 2015 il Pastore, oggi nell’occhio del ciclone per la storia di una presunta omessa denuncia di abusi su una bambina di 9 anni, riuscì a far approvare, dall’opposizione, una strampalata mozione a difesa della famiglia tradizionale, con il voto favorevole dell’intero Civico Consesso ad eccezione lodevole dell’allora presidente del Consiglio comunale Demetrio Delfino. Questo è il contesto generale che non ammette, visto anche il periodo propizio, “meravigliati della grotta”. Per una volta, la politica, dunque, si riappropri del suo primato e della sua dignità sminuzzando i tanti voti di cui, naturalmente, dispone, il capo carismatico di una Chiesa e mostri il coraggio di tenere fuori dalla porta chi è incompatibile, a prescindere dalle vicende giudiziarie, con gli ideali a fondamento di una democrazia.

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