
“Signorina (intestazione autonoma) veniamo noi con questa mia a dirvi”: l’incipit della celeberrima lettera di Totò e Peppino e rivolta alla fidanzata del nipote nel film “Totò, Peppino e la malafemmina”, ben si attaglia al tono della missiva inoltrata lunedì dai panchinari comunale e metropolitano di Reggio Calabria al presidente del CONI, Giovanni Malagò.
Oggetto della stessa, naturalmente, il “caso Reggina” sul quale i due rincalzi istituzionali stanno disperatamente tentando di non essere messi in fuorigioco dagli eventi che quotidianamente si succedono a causa delle spericolate acrobazie di fattura saladiniana. Dopo aver reso edotto il numero 1 dello sport italiano sul motivo che li ha spinti a disturbarlo, specificano, a scanso di equivoci, che non è loro intenzione entrare nel merito delle vicende giudiziarie e giuridiche origine prima e causa principe dei guai della società amaranto, in seguito ad essi estromessa dal campionato di Serie B. Già a questo punto lo scritto si sarebbe dovuto interrompere, perché, salvo non si sia mossi dal desiderio pavido di lisciare il pelo alla pancia popolare, null’altro avrebbero potuto o dovuto aggiungere. I due facenti FINZIONI, invece, si sono lanciati in un intrepido contropiede nell’intento di spiegare al destinatario disinformato (questo lascia intendere il loro pensiero messo per iscritto) l’”importanza che socialmente ed economicamente riveste la Reggina per un territorio come il nostro e, di contro, quello che significherebbe la conferma della sua esclusione a beneficio di altre realtà economicamente più forti e ben più radicate nella ’politica’ del calcio professionistico nazionale”. Per meglio entrare nel dettaglio di questa “raffinatissima” osservazione pseudo-sociologica, Brunetti Paolo e Versace Carmelo hanno richiesto di incontrare il presidente del CONI a quattr’occhi. In buona sostanza, anticipano a Malagò che, essendo quello reggino un territorio sottosviluppato, sarebbe cosa gradita ed un piacere ben accetto se non gli venisse sottratto dalle mani il giocattolo della Reggina, almeno quello. Detto in altre parole: non sapendo come districarsi in una situazione ben più grande delle loro capacità e delle loro competenze, i due “tricolor fasciati” buttano la palla in tribuna nella speranza di guadagnare tempo prezioso agli occhi dell’opinione pubblica. Per non parlare della sgrammaticatura istituzionale, anche dal punto di vista etico e formale, di due rappresentanti politici che, in virtù del loro status momentaneo, intendono andare a perorare, alla corte del capo del CONI, la causa di una parte mentre è pendente un giudizio dinanzi al Collegio di Garanzia dello Sport del CONI. Non che la loro influenza sia superiore allo 0, ma resta, comunque, una forzatura ingiustificabile, sebbene non si configuri quale pressione indebita proprio per l’inconsistenza degli attori in campo. Di analogo tenore, del resto, appaiono gli interventi politici di coloro i quali sono intervenuti nel tardo pomeriggio di lunedì alla manifestazione, molto riuscita, voluta dai tifosi (quelli autentici) in Piazza Duomo. A dare fuoco alle polveri è stato Francesco Cannizzaro, Deputato di Forza Italia che, fallendo completamente bersaglio, si è preoccupato di difendere l’indifendibile patron della provincia di Catanzaro, giustificandolo e tentando di spiegarne, persino, la buona fede impossibile da intravedere nei comportamenti ambigui e pavidi adottati nel corso della sua disgraziata “campagna” reggina. Ha avuto gioco facile, come noto, grazie all’assenza di figure autorevoli che gli chiedessero conto: esemplare, in questo senso, il pensiero espresso dal facente FINZIONI di Palazzo San Giorgio che, a tutt’oggi, non ha capito se “la Reggina ha sbagliato qualcosa, o Gravina sa qualcosa che noi non sappiamo”. Nel dubbio si è incollato alla sedia rivestita di vittimismo frignando che: “La situazione della Reggina è iniqua, perché il club amaranto è stato messo alla porta, mentre società con problemi più grossi non sono state escluse”. Un piagnucolio che, come sempre, ha condiviso, con il facente FINZIONI metropolitano il quale, facendo eco al compagno di ventura, ha provato ad aizzare la folla pronunciando l’editto fasullo: “Se ci sarà giustizia, il prossimo anno la Reggina giocherà in serie B”. Parole che, se orecchiate al bar in piazza, suscitano un sorriso compassionevole, ma se spiccicate da un uomo delle istituzioni diventano una bomba la cui miccia nessuno saprebbe come spegnere. Anche questo significa irresponsabilità. Diverso e distante delle frasi fatte buone per rabbonire i tifosi e proteggersi dalle critiche con uno scudo di visibilità infruttuosa, si è rivelato, al contrario, l’approccio mostrato da Massimo Ripepi e Nino Castorina, uno consigliere di centrodestra, l’altro di centrosinistra. Il primo, senza mezzi termini, liquidato il patron proveniente dalla provincia di Catanzaro come un traditore del patto siglato con la città, ha chiamato in causa Marcelo Cardona, reggino che, come commentato dall’esponente della minoranza, “sa le cose e deve dirci qual è la situazione”. Invece di blaterare, megafono in mano, di aria fritta, gli eletti presenti negli enti locali hanno, del resto, il dovere di pretendere la verità da “Felicetorix, druido lametino” (cit. la pagina Facebook “Leggende Amaranto”), “Messia comportatosi da mercenario venuto meno alla parola data”, come da definizione disegnata dal presidente della Commissione Controllo e Garanzia. Ma è dal Prefetto nato a Reggio Calabria che Ripepi si aspetta un vero e proprio rapporto alla città turlupinata. Un rapporto tanto più logico se si pensa a tutte le circostanze in cui l’uomo di Stato si è autoproclamato garante della trasparenza e della legalità: due concetti che in questa brutta faccenda si sono perse per strada e non hanno ancora ritrovato la via maestra. Una via che, all’opposto, ha trovato la giusta direzione la mozione presentata da Castorina, anch’essa tesa, formalmente ed ufficialmente, a dare una scossa alle istituzioni affinché invochino quella chiarezza mancata nelle azioni opache di cui si si sono resi protagonisti i vertici societari e, in ottica futura, si facciano carico delle responsabilità gravanti su di esse: quelle di tutelare, con atti reali e non a chiacchiere in piedi al centro di una piazza bruciante di passione, un patrimonio comune che, auspica Castorina, finisca in “mani solide”. Per farlo, a dispetto delle banalità che denotano una impotenza politica, oggettiva ma intollerabile, è decisivo che gli amministratori pubblici acquisiscano la consapevolezza che è in capo ad essi il ruolo di indirizzo e di controllo dei beni di quel “patrimonio comune” affiorante, inutilmente spesso, da labbra poco aduse alla conoscenza delle loro cariche precarie e provvisorie.