
Nell’analisi dei diversi aspetti del lockdown, la tendenza è quella di concentrarsi sul calo della produzione e del reddito e sull’arretramento dei consumi. Dati alla mano, è innegabile che il Pil nazionale abbia subito un durissimo colpo che ha comportato una decrescita significativa.
La complicata fase che ancora costringe la popolazione a convivere con i rischi determinati dal contagio può però spingere a riflessioni più approfondite, soprattutto in riferimento alle aree marginali, caratterizzate da un forte ritardo di sviluppo.
Le zone interne del Mezzogiorno devono ormai da decenni fare i conti con un processo di spopolamento, causato principalmente dall’assenza di lavoro (e di servizi). Molti giovani, dopo aver completato gli studi universitari, non tornano nella terra d’origine per la (quasi) impossibilità di raggiungere la realizzazione professionale e stabiliscono la loro residenza nelle regioni settentrionali. Questa fuga alimenta un circolo vizioso: la mancanza di “gente”, che si traduce anche in una privazione di risorse finanziarie, toglie “senso” alle attività presenti in loco e stimola una ulteriore spinta alla chiusura ed all’allontanamento.
Con l’azione di misure di contrasto al contagio, specie nel settore pubblico si è diffusa su larga scala l’impostazione del lavoro agile o a distanza (smart working) che, nel suo concetto più ampio, è definito dal Governo come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”. La definizione di smart working, contenuta nella Legge n. 81/2017, pone l’accento “sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (come ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone)”.
Semplificando, lo smart working è il lavoro compiuto “da casa” da parte del dipendente che si serve di dispositivi tecnologici.
L’applicazione di questa modalità lavorativa ha permesso a molti impiegati residenti nelle grandi città o comunque nelle zone più avanzate del Paese di tornare nei centri delle aree interne meridionali generando, di fatto, un aumento della popolazione, una maggiore disponibilità di redditi e quindi un incremento dei consumi su base locale.
Questo meccanismo porta, di conseguenza, un riequilibrio nella distribuzione delle risorse e, se applicato per più periodi dell’anno, può diventare uno strumento per ripopolare e rilanciare le aree oggi depresse.
Il tutto senza calcolare le ricadute in termini di competenze e potenziamento sociale e culturale. Sta alle classi dirigenti ed alle comunità interessate trasformare una potenzialità in un’occasione concreta di crescita.