Un paio di giorni fa, ospite della Fondazione Tatarella, Giuseppe Scopelliti ha presentato, presso la Facoltà di Giurisprudenza di Bari, il libro “Io sono libero”, un volume in cui diverse, come avevamo già scritto poco meno di un anno addietro (https://ilmeridio.it/io-sono-libero-gli-enigmi-irrisolti-che-si-espandono-dal-libro-di-scopelliti/), erano le domande emerse nel corso della lettura e, tuttora rimaste inevase a causa della codarda, ed interessata, perfidia degli sciacalli che tramano nel buio fitto del raggiro ai danni dell’opinione pubblica.
Anche quando essi godono tronfi della presunta caduta del nemico, però, sottovalutano, perché con la bava alla bocca per la sete di odio e di potere, avvampati dal fuoco dell’invidia e del rancore, che tutto possono provare a mettere a tacere con metodi subdoli, ma non la fierezza. E’ l’effetto prodotto dai 4 anni e 7 mesi comminati a Scopelliti, al quale è stato addebitato, in via definitiva, il reato di falso in atto pubblico. Così sentenziarono i Tribunali dello Stato italiano: un verdetto divenuto inappellabile, però, solo nelle aule di giustizia, perché in quelle nelle quali aleggia imperiosa la dea della Verità altre sono le procedure, altri sono i codici validi. Prova ne è che ad aver sofferto la battuta d’arresto impostagli è stato il “politico”, non l’uomo che, come sta dimostrando in occasione delle prime uscite pubbliche dopo aver scontato la pena, ha dismesso i panni di consigliere circoscrizionale e comunale, di presidente del Consiglio ed assessore regionale, persino quelli di presidente della Regione ed astro in costante ascesa del centrodestra nazionale, per testimoniare una esperienza traumatica, ma da cui, se immersi nello spirito di un popolo, si risorge con una consapevolezza inviolabile: “E’ sempre libero chi è libero dentro”, parola dello stesso Scopelliti. Per uno dei tanti strani paradossi che agitano le esistenze degli uomini, a rendere esplicito il vissuto, pubblico e privato, sono, molto spesso, i carnefici lesti ad avventarsi sugli apparenti resti della vittima da essi immaginata ormai tramortita dalla potenza della malvagità. Non sanno costoro, perché non ne hanno mai assaggiato il gusto, che la sintonia con una comunità è qualcosa di inafferrabile, di sfuggente ad occhi lividi di astio. “Gente” è stata la parola, o meglio l’idea, che Scopelliti ha utilizzato più frequentemente nel corso del colloquio con la conduttrice dell’emittente televisiva barese che lo ha intervistato in concomitanza con la presentazione del libro. Non è un caso, non lo è a dimostrazione che le sentenze giudiziarie, con un retrogusto comunque politico, sono prive della forza necessaria ad annientare o, almeno, ad anestetizzare un vissuto carico di militanza, gremito di partecipazione e condivisione con i bisogni di un territorio. In ultima istanza, al netto della disgraziata irruzione sulla scena di teatranti e pagliacci, di ladri di democrazia e truffatori dall’alto comparaggio e dal basso lignaggio, questo è ciò che è mancato a Reggio Calabria nell’ultimo decennio: la possibilità di sognare un futuro diverso, un futuro che fosse diverso rispetto al presente sventurato di una città morta nell’indifferenza di chi se ne sarebbe dovuto prendere cura e, invece, l’ha pugnalata armato di ignoranza ed impreparazione. Mai un orizzonte visionario in direzione del quale guidare la propria “gente”, ma una perpetua rapina di Verità indossando il passamontagna che il Sistema ha colorato di odio avvalendosi di una politica asservita alle logiche di un potere pervertito. Il sorriso compiaciuto di una comunità orgogliosa di mettersi a distanza di sicurezza dalla sofferenza si è bagnato con le lacrime di un pianto che ha smarrito la speranza di progredire e rendere realizzabili le proprie aspirazioni. Accade inesorabilmente quando si ha a che fare con il cinico disprezzo nei riguardi della “gente” aizzata ad abbaiare contro il nemico da abbattere in un processo di demonizzazione credibile soltanto per plebi a digiuno di educazione intellettuale. Non è capitato solo con Scopelliti, non capiterà solo con Scopelliti, ad ogni livello: quando la strategia prende la forma della conservazione rigida di equilibri di dominio che calpestano il bene del territorio è dovere inderogabile di chi è in possesso di “spessore culturale, umano e politico, di equilibrio, moderazione e capacità di lettura” fare in modo che si ricomponga la frattura apertasi tra “gente” e Stato.