49 arresti per ’ndrangheta: anche un prete e un rappresentante delle forze dell’ordine sospettati di aver favorito il clan

Vari sono i temi d’indagine che contraddistinguono l’indagine «Hybris» scattata stamane all’alba.

Bisogna, in prima battuta, riferirsi al dato temporale: l’indagine cattura le dinamiche della cosca nei mesi antecedenti alla scarcerazione di Giuseppe Piromalli, dopo oltre un ventennio di carcerazione. In questo senso, viene registrato il fervore dei consociati per recuperare una unità monolitica della cosca (segnata da personalismi quali la mancata condivisione degli utili), chiudendo un periodo ritenuto di transizione.

In tema di unità si deve registrare anche il riavvicinamento tra le cosche Piromalli e Molé, tornate a dialogare a distanza di 15 anni dall’omicidio del 43enne Rocco Molé, avvenuto il 1° febbraio 2008, ritenuto il termine di un periodo di duopolio nella Piana di Gioia Tauro. L’intento dei luogotenenti dei Piromalli – per come restituito dalle intercettazioni – appare quello di ripristinare una partnership con i Molé, che avrebbe reso più semplice il raggiungimento degli obiettivi strategici di natura illecita.

Il punto di incidenza che segna il rinnovato dialogo muove dal controllo del mercato ittico di Gioia Tauro. La ricostruzione dell’incendio di un peschereccio in un cantiere navale alla Tonnara di Palmi nell’ottobre 2020 ha permesso di dimostrare come l’evento fosse stato pianificato dalla cosca Molé, perché il proprietario dell’imbarcazione non avrebbe conferito il pescato al mercato ittico di Gioia Tauro, disattendendo le imposizioni mafiose relative alla gestione dell’intero settore. La distruzione del peschereccio, reso inutilizzabile, avrebbe innescato una dinamica criminale di estremo interesse, in quanto la vittima, invece di ricorrere alle strutture preposte, avrebbe ritenuto utile cercare la copertura mafiosa dei componenti della cosca Piromalli. Una richiesta che, dietro lauti compensi, sarebbe stata concessa dai vertici della consorteria. In buona sostanza, una dinamica trasversale che avrebbe reso necessario un dialogo tra le due anime criminali di Gioia Tauro, il cui punto apicale sarebbe stato rappresentato da un summit effettuato all’interno dell’area cimiteriale del centro più importante della «Piana».

Nel segno della tradizione mafiosa è il ruolo preminente della «casa madre» nella ripartizione delle estorsioni, applicate in maniera sistematica sulle attività economiche di Gioia Tauro

Le operazioni svolte, nel loro complesso, hanno restituito un quadro chiaro sul controllo minuzioso del territorio effettuato dai componenti della cosca Piromalli. Un controllo effettuato in maniera pervasiva che avrebbe consentito ai mafiosi di conoscere ogni singola iniziativa economica.

Conseguentemente, i proventi del malaffare sarebbero stati ripartiti nella parte sostanziale verso la «casa madre», le cui donne ricevano parte dei profitti estorsivi.

Il monitoraggio ha restituito l’immagine di una «‘ndrangheta economica», sempre alla ricerca del profitto, ma anche saldamente legata ai simboli ed alle tradizioni criminali.

Tra le forme di aggressione del territorio gli esponenti della cosca avrebbero attuato anche un diffuso racket, con particolare incidenza verso quello delle cosiddette «guardianie» (estorsioni poste in essere nei confronti dei proprietari dei fondi agricoli i quali, pagando una quota annuale alla cosca competente per territorio, evitano che i terreni vengano depredati dei raccolti o danneggiati nelle culture).

Capacità di pervadere il territorio dimostrata anche dalla disponibilità di armi affidate a custodi fidati: una scelta, quella di parcellizzare i luoghi di detenzione delle armi, oculata per quel che concerne pronta disponibilità sul territorio e schermatura da sequestri imponenti da parte delle forze dell’ordine. Di contro, gli investigatori, con l’individuazione dei soggetti deputati a custodire le armi, sarebbero riusciti a comprovare il loro ruolo nell’aggregazione di mafia individuata.

Un’altra manifestazione criminale rilevata durante le indagini ha riguardato l’imposizione delle assunzioni a beneficio degli appartenenti alla cosca. In particolare, è stato documentato come un imprenditore sarebbe stato costretto ad assumere un appartenente al sodalizio in una fabbrica attiva nella zona industriale del porto di Gioia Tauro. Il responsabile della ditta, oltre a non poter scegliere le maestranze da assumere, non avrebbe potuto neanche sindacare sul rendimento e sull’apporto lavorativo dei malavitosi assunti.

Si sono evidenziati alcuni equilibri criminali che avrebbero regolato la gestione immobiliare della zona industriale prospiciente al porto di Gioia Tauro. Un atteggiamento incurante delle iniziative rivolte a regolamentare questo settore, considerato il principale volano che avrebbe dovuto contribuire a valorizzare la zona del «retroporto» di Gioia Tauro. Beni «banditi all’incanto» verso i quali sarebbero stati rilevati convergenti interessi per la loro aggiudicazione, dove chi non era gradito agli esponenti della malavita locale sarebbe stato preventivamente scoraggiato a partecipare.

In due diverse circostanze gli indagati avrebbero avuto la necessità di operare fuori dalla Calabria e lo hanno fatto, sostengono gli inquirenti, rivolgendosi agli omologhi esponenti criminali del posto, inseriti rispettivamente nei consessi di criminalità organizzata pugliese e siciliana. Un ambito nel quale sarebbero state rilevate le alleanze trasversali tra le organizzazioni. In entrambe le circostanze gli esponenti dei Piromalli avrebbero fatto leva sull’intimidazione dei criminali che potevano esercitare il loro potere mafioso nella zona di interesse.

Inoltre, in uno scenario di vita criminale, sono stati richiamati i rapporti tra gli esponenti della «mafia siciliana» e quelli della «‘ndrangheta calabrese», disegnando uno scenario storico lungo oltre trent’anni e che apre un ulteriore scorcio sulle alleanze tra le diverse matrici mafiose nei primi anni novanta.

Un settore criminale ricorrente in ogni attività di contrasto alle maggiori consorterie della ‘ndrangheta, risulta essere quello dei traffici di grosse partite di stupefacente, soprattutto di «cocaina». Il mercato degli stupefacenti ha modificato nettamente l’approccio criminale: dalla contrapposizione alla federazione delle cosche per effettuare l’importazione di enormi quantitativi di droghe. Il sistema di collaborazione tra le diverse realtà della ‘ndrangheta garantisce minori spese e notevoli facilitazioni, oltre all’intuibile riduzione di quello che potrebbe essere definito come il «rischio d’impresa» in caso di sequestri.

In questo ambito un appartenente alla cosca si sarebbe impegnato per “importare, in due differenti circostanze, 298 kg e 216 Kg. di cocaina (la prima sequestrata presso il porto di Santos, la seconda al porto di Gioia Tauro, occultata in un container trasportato da una motonave proveniente dal Sud America).”

Nell’ambito delle contestazioni effettuate è stata ipotizzata una «rivelazione del segreto d’ufficio» in favore degli appartenenti alla cosca Piromalli da parte di un appartenente alle Forze dell’Ordine, che ha posto in essere una condotta non compatibile con gli obblighi di riservatezza imposti dal proprio ruolo. Inoltre, tra le accuse mosse vi è anche quella afferente alle «false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’Autorità Giudiziaria» della quale è chiamato a rispondere un sacerdote, al quale è stata contestata la «compiacenza» nel redigere dichiarazioni «di comodo», che gli appartenenti al sodalizio avrebbero potuto utilizzare per ottenere benefici e misure alternative alle pene.

Trattandosi di provvedimento in fase di indagini preliminari, rimangono salve le successive determinazioni in fase processuale.

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