14 luglio 1970: come siamo diventati oggi quello che non eravamo ieri

Nel corso dell’intera giornata, oggi, 14 luglio, come ogni anno, forse più degli altri anni, gli occhi dei reggini sono stati presi in ostaggio, legati con funi di incredula nostalgia, da un fluire disordinato di immagini, foto e video, di pensieri e ricordi, in presa diretta o tramandati per tradizione orale: era fuoco, erano pietre, erano lacrimogeni, erano carri armati, era fumo, erano barricate, erano imboscate, erano assalti, erano difese, era rabbia, era amore, era Reggio Calabria.

Era tutto ciò che non è più, erano uomini che non sono più, erano donne che non sono più, era un popolo che non è più e quel decorso caotico incastrato nel passato si trasforma in un presente sotto scacco di una domanda che si erge, imperiosa, su tutte: come è possibile essere diventati quello che (non) siamo? Figli degeneri che non hanno la forza mentale, e nemmeno la coscienza civile, di chiedere scusa ai padri. Passioni comunitarie bruciate come le automobili allora avvolte dalle fiamme, ridotte in cenere, ammassi inservibili di ideali irrecuperabili. Una barriera di fuoco che continua ad avanzare a distanza di oltre cinque decenni insinuandosi in ogni pertugio di anime in fuga e si innalza in colonne di incubi impossibili da spegnere, anche perché, sul lato calabrese dello Stretto, nemmeno l’acqua è rimasta a lavare la vergogna. Le mani non sono utilizzate per scagliare sassi, ma sgrammaticati anatemi che, completata la parabola della stupidità, ricadono nel vuoto delle proprie vite, in una corsa collettiva verso la vacuità rassegnata. Nessuno, d’altra parte, durante la lunga fase di riflusso, ha avuto la lungimiranza di costruire argini alla deriva ed ora, con il torrente fattosi fiume incazzato, la furia si disperde in mille rivoli, tutti banali, tutti insignificanti. La via per impossessarsi delle armi, all’epoca puntate verso la città da uno Stato colonizzatore, e volgerle verso noi stessi in un suicidio valoriale che ha lasciato ferite purulente e cicatrici mai rimarginate, è stata breve e larga. Mentre abbandonavamo quella Reggio in barella, non ci siamo resi conto che stava morendo, che stavamo morendo tutti e abbiamo preferito, da quel momento in poi, affidarci al pianto consolatorio che, se ininterrotto, prosciuga il desiderio di rivalsa e lascia spazio alle razzie degli sciacalli, criminali ed istituzionali. L’indifferenza si è impadronita di ogni angolo della città passando sulle macerie e sui detriti di una repressione diventata interiore. Cecchini del nostro destino, abbiamo permesso che fossero rastrellati i nostri diritti primari, abituandoci alle cazzate sparate dai plotoni della mediocrità datisi il cambio nell’occupazione delle ambizioni di un popolo che tale non è più perché gli è stato fatto credere che non può esserlo. Lo hanno preso in giro concedendogli la biada della nostalgia dei bei tempi andati, costringendolo a girare il capo per guardarsi dietro e fare passi indietro. A quel punto era un gioco da ragazzi far saltare in aria il ponte verso il futuro obbligando a rimanere sulla sponda scoscesa da cui scivolare nelle acque putride dell’egoismo sociale. Nessuna bandiera da agitare con orgoglio, nessuna bandiera resistente ai venti e nella quale riconoscersi con fierezza: è così che ci siamo consegnati all’irrilevanza, è così che, agitando i manganelli dell’inganno e facendosi scudo con le promesse, hanno condannato una comunità al fallimento della speranza. Là, lungo le strade dove un tempo i coraggiosi combattevano per ribaltare il Sistema, sono crateri e sono ratti. I fazzoletti che aiutavano a proteggersi dagli effetti dei gas lacrimogeni servono ad asciugare lacrime di sconforto per quello che avrebbe dovuto essere e non è, per quelli che avremmo dovuto essere e non siamo.

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